E’ del tutto legittimo che l’accordo regionale sulla dpc dell’Emilia Romagna quantifichi senza rigidità i volumi dei pezzi da incanalare nella distribuzione diretta tramite Asl e nella distribuzione per conto attraverso le farmacie del territorio. In tali intese, infatti, si parla di farmaci, ossia di «beni strettamente legati alla salute del cittadino», il cui valore «va tutelato in via prevalente rispetto all’interesse economico delle farmacie». Di conseguenza, «formule elastiche circa i canali di distribuzione» consentono di «adeguare la fornitura alle specifiche esigenze di tutela dei malati», così come di «realizzare un risparmio della spesa pubblica». Farà certamente discutere i farmacisti titolari la sentenza del Tar dell’Emilia Romagna che una settimana fa – lunedì 25 novembre – ha respinto il ricorso di Federfarma Rimini e di Federfarma nazionale (intervenuta ad adiuvandum) contro Regione e Asl Romagna, accusate di aver violato gli accordi sulla dpc che imponevano alle aziende sanitarie di rientrare nei volumi della diretta del 2008.
Il contenzioso si trascina da più di cinque anni: è nel 2013, infatti, che Federfarma Rimini denuncia Asl Romagna e Regione davanti al Tribunale ordinario per aver superato «i limiti numerici per la distribuzione diretta». Accertata la propria incompetenza sulla materia, il Tribunale rimette la questione al giudice amministrativo, che nel 2017 chiede alle parti dati di dettaglio sui pezzi distribuiti nei due canali nel periodo 2009-2013. Seguono altre udienze fino al febbraio scorso, quando il Tar accoglie la richiesta della Regione di considerare nei conteggi non solo i volumi ma anche i valori della distribuzione diretta.
E sono proprio questi ultimi dati, a giudizio del Tribunale amministrativo, a dare torto alle farmacie: «Le verifiche disposte» si legge infatti nella sentenza «fanno evincere che pur non essendoci stata una riduzione del numero dei pezzi distribuiti in via diretta dall’Asl Rimini, il valore complessivo degli stessi nel periodo in oggetto si è ridotto in maniera rilevante, a partire dal 2010 e arrivando nel 2013 ad una diminuzione di circa il 18% rispetto ai valori fissati come obiettivo». Poco male, osservano i giudici, se non c’è stato calo dei volumi ma solo dei valori, perché «ad avviso del Collegio, assume maggior rilevanza quest’ultimo dato, stante l’asserita riduzione dei propri introiti da parte delle farmacie ricorrenti».
D’altronde, proseguono i giudici, l’accordo sottoscritto dalla Regione è vincolante nella parte in cui impone di «attivare misure di contenimento della distribuzione diretta», ma da questo «non scaturisce automaticamente l’obbligo di raggiungere l’obiettivo entro e non oltre una data certa». Anzi, osserva il Tar, l’intesa «impegna espressamente la Regione ad attivare le Asl solo in caso di “scostamento significativo” rispetto al 2008, con ciò ammettendo quindi che uno scostamento possa anche perdurare nel medio periodo». In più, «la stessa disposizione pattizia non fissa i parametri per valutare quando sussista tale “scostamento significativo”, in tal modo rendendo l’impegno assunto volutamente elastico e adeguabile alle concrete circostanze ed esigenze».
Per di più, continua la sentenza, «l’accordo non ha previsto alcuna conseguenza risarcitoria da parte dell’Asl o della Regione» in caso di effettivo scostamento dai limiti del 2008. L’intesa, infatti, si limita a enunciare una «clausola di contenimento» che «impegna le Asl a ridurre progressivamente i volumi della diretta per riportarli, in tempi ragionevoli nei limiti accertati a fine 2008». In più, «né Federfarma né le 67 farmacie che hanno agito in questa sede hanno fornito prova del pregiudizio singolarmente subito».
Respinta infine per mancanza di «alcun interesse concreto e specifico in capo ai ricorrenti» anche la parte del ricorso che imputa a Regione e Asl «la mancata riscossione delle quote di compartecipazione a carico del cittadino e del ticket».