Gli accordi sottoscritti in vari anni da Regione Emilia-Romagna e Federfarma per impegnare le Asl a ridurre progressivamente i volumi della distribuzione diretta a favore della dpc non hanno «natura di negozio giuridico di diritto privato», ma sono «accordi di natura endoprocedimentale e integrativa» la cui vincolatività «è subordinata alla compatibilità con l’interesse pubblico». Di conseguenza, va esclusa «una responsabilità per inadempimento» in capo alla parte pubblica, cosa che invece contraddistingue il modello negoziale.
E’ il principio ribadito dalla sentenza, pubblicata l’11 giugno, con cui il Consiglio di Stato ha respinto l’appello presentato da Federfarma Rimini e una sessantina di farmacie della provincia per impugnare la sentenza del Tar che in primo grado aveva rigettato il loro ricorso. Il contenzioso, come si ricorderà, riguarda l’intesa sulla dpc che le farmacie dell’Emilia-Romagna avevano sottoscritto con la Regione nel 2007 e poi prorogato più volte fino al 2013. «Nella versione originaria» riassume il Consiglio di Stato «si stabiliva la cooperazione delle farmacie private nella distribuzione dei farmaci» di cui all’articolo 8 del decreto 347/2001, in perfetta conformità alla disposizione stessa. «Nelle successive proroghe, e in particolare in quella in data 31 luglio 2009, si inseriscono invece ulteriori contenuti, concernenti la suddivisione delle quote di distribuzione tra il canale pubblico e il canale privato (Asl e farmacie, ndr), che appaiono ulteriori rispetto all’oggetto del decreto».
Nonostante i termini concordati, i volumi della distribuzione diretta praticata dall’Asl Romagna a partire dal 2010 non si sono ridotti a beneficio della dpc e di conseguenza Federfarma Rimini ha portato l’Azienda sanitaria davanti al Tar per violazione degli accordi regionali. Con sentenza del 2019, il Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso e oggi il Consiglio di Stato ha confermato la decisione.
Per i giudici di appello, in sostanza, l’articolo 8 del decreto legge 347/2001 «vuole solo consentire il controllo della spesa sanitaria e la possibilità di stipulare accordi con le farmacie rappresenta soltanto una «via derogatoria alla regola generale», considerato che le farmacie possono assicurare la «distribuzione capillare dei farmaci che necessitano di un controllo». Tali accordi, dunque, «sono espressione di potere amministrativo secondo la tesi “pubblicistica” prevalente in dottrina», di conseguenza la parte pubblica è esclusa da «responsabilità per inadempimento».
In ogni caso, osserva ancora il Consiglio di Stato, ha ragione il Tar quando afferma che gli appellanti non sono comunque riusciti a dimostrare la violazione delle clausole pattuite da parte dell’Asl Romagna: come accertato dalle verifiche disposte nel giudizio di primo grado, infatti, è vero che non c’è stata «una riduzione del numero dei pezzi distribuiti in via diretta», ma è anche vero che «il loro valore complessivo si è ridotto in maniera rilevante a partire dal 2010, arrivando nel 2013 a una diminuzione di circa il 18% rispetto ai valori fissati come obiettivo». In altri termini, «la cosiddetta clausola di contenimento è stata rispettata» e il fatto che ciò abbia riguardato i valori piuttosto che i volumi è ancora più rilevante dato che nel ricorso le farmacie lamentano ricadute sui loro fatturati proprio per la violazione delle clausole. Federfarma nazionale ha partecipato al giudizio davanti al Consiglio di Stato per sostenere le ragioni degli appellanti.