In Francia, un recente provvedimento delle autorità sanitarie permette ai malati di epatite C di ritirare i farmaci antivirali per il trattamento della malattia nella farmacia sotto casa. In Italia, invece, per avere gli stessi medicinali gli assistiti sono costretti a spostarsi anche di parecchi chilometri, perché la prescrizione e dispensazione è riservata a centri specialistici il cui numero e distribuzione sul territorio non sono sempre adeguati alle necessità: nel Trentino, per esempio, c’è in media una struttura erogatrice ogni 7mila chilometri quadrati, in Calabria ogni duemila circa, in Lazio ogni 1.200, in Lombardia ogni 600. E’ quanto rivela l’indagine condotta da EpaC onlus, associazione che rappresenta i malati di Hcv, per mettere a confronto le condizioni di accesso ai farmaci contro l’epatite C nelle regioni italiane.
Disponibile da ieri sul sito internet dell’organizzazione, il rapporto fornisce una stima decisamente pessimistica sulle prospettive del piano nazionale di eradicazione della malattia: l’intenzione era quella di avviare al trattamento con i cosiddetti Daa (Direct antiviral agents) 80mila pazienti all’anno per il trennio 2017-2019, in modo da cancellare la malattia entro il 2020; i dati di EpaC, invece, dicono che alla fine del primo anno meno di un malato su due ha avuto effettivamente accesso alle terapie. E la colpa non è dei soldi che non ci sono, perché il Governo centrale ha stanziato per il triennio un fondo di 1,5 miliardi di euro da destinare all’acquisto dei farmaci innovativi.
Le colpe dei ritardi, per EpaC, vanno dunque cercate altrove. Per esempio non tutte le Regioni hanno definito un Pdta condiviso (Percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale) che definisca l’iter per la presa in carico e il trattamento dei malati. E poi pesa la frequente inadeguatezza delle reti regionali in cui sono raggruppati i centri per la prescrizione e la dispensazione dei farmaci: dal marzo dell’anno scorso – quando l’Aifa ha annunciato di voler eradicare l’epatite C entro il 2020 estendendo a tutti i malati l’accesso alle cure – soltanto cinque Regioni hanno aumentato il numero dei centri autorizzati (Veneto +4, Piemonte +3, Molise +3, Puglia +1, Friuli Venezia Giulia +1) e tre hanno incrementato i reparti (Toscana +1, Lazio +1, Calabria +1). Più in generale, nel passaggio dai Daa di prima a quelli di seconda generazione, il 52% delle Regioni ha incrementato il numero dei reparti prescrittori (Veneto +22, Puglia e Sicilia +7, Toscana +10), il 28% lo ha lasciato invariato e il 20% ha operato tagli anche drastici (Lazio -8, Campania -53).
Quali interventi mettere in campo, allora, per avere ragionevoli possibilità di centrare l’obiettivo? Per EpaC, andrebbe innanzitutto disegnato un Pdta unico nazionale, condiviso da tutte le Regioni nel rispetto delle singole autonomie e strutture organizzative, che contenga pochi punti operativi ma essenziali per tracciare percorsi di presa in carico e avviamento alla cure. In secondo luogo, occorrerebbe coinvolgere la rete dei medici di medicina generale nel follow up dei pazienti guariti così come negli screening per far emergere pazienti inconsapevoli dell’infezione.
E le farmacie del territorio? Le proposte elencate dal dossier non le citano, ma non per dimenticanza. «La ricerca» spiega a FPress Ivan Gardini, presidente di EpaC onlus «si basa sulle segnalazioni provenienti dai nostri malati. E finora nessuno ha lamentato disagi per il fatto di non poter avere i farmaci sotto casa». Anche se la ricerca dimostra che spesso raggiungere il centro di prescrizione/dispensazione richiede un bel viaggio. «Le nostre medie sono teoriche e non sempre fotografano la situazione effettiva» avverte Gardini «in ogni caso va tenuto conto che se non osserviamo disagi è anche perché spesso la fornitura scatta in corrispondenza delle visite di controllo, che ormai avvengono a distanza di un paio di mesi». Restano però i problemi legati ad aderenza terapeutica e monitoraggio, che sono poi i motivi per cui in Francia si è deciso di affidare alle farmacie la dispensazione di questi antiretrovirali: otto settimane di cura costano alcune migliaia di euro, una scatoletta lasciata a metà vale lo stipendio di un operaio.