Sono ingiustificati gli allarmi lanciati la settimana scorsa da Censis e Rbm Salute sulla progressiva insostenibilità delle spese per la salute che gli italiani affrontano di tasca loro. E’ quanto scrive la Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze) nel comunicato diffuso ieri per replicare ai dati dell’VIII Rapporto sulla spesa sanitaria privata, presentato giovedì scorso a Roma dall’istituto di ricerche e dalla compagnia assicurativa: «Gli inquietanti dati del Censis» osserva Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe «proiettano su oltre 60 milioni di persone i risultati di un’indagine realizzata tramite un questionario strutturato somministrato a un campione rappresentativo di mille adulti». La ricerca però presenterebbe «numerose criticità metodologiche: innanzitutto, non si conoscono le domande del questionario; in secondo luogo, le tecniche per selezionare gli intervistati non permettono di escludere un “campionamento di convenienza”; ancora, non vengono riportati margini di variabilità sulle stime ottenute».
Ai numeri del Censis, così, la Fondazione Gimbe oppone le cifre dei suo III Rapporto, che stima in circa 40 miliardi di euro – come fa la ricerca Rbm – la spesa sanitaria privata delle famiglie, «ma non rileva nessun allarme sul suo incremento». Anzi, dice Cartabellotta, tale spesa rimane stabile attorno al 18% sia nel periodo della crisi (2009-2016) sia nel periodo pre-crisi (2000-2008). E poi, questi 40 miliardi andrebbero pure sfrondati:
• 3.362 milioni di euro vengono “restituiti” dallo Stato sotto forma di detrazioni fiscali
• 1.310 milioni sono relativi all’acquisto di farmaci di fascia A, virtualmente a carico del SSN, ma che i cittadini acquistano in autonomia per loro volontà
• 1,5 miliardi sono destinati alla compartecipazione della spesa per i farmaci, ma di questi € 1 miliardo viene sborsato per acquistare farmaci brand al posto degli equivalenti
• 5.900 milioni sono destinati a prodotti omeopatici, erboristici, integratori, nutrizionali, parafarmaci, etc., voce di spesa peraltro esclusa dai nuovi conti della sanità dell’ISTAT
• 5.215 milioni vengono spesi per farmaci di fascia C e di automedicazione, buona parte dei quali sono di efficacia non dimostrata
• 11.000 milioni (che includono € 1.300 milioni di ticket) sono destinati a visite specialistiche ed esami diagnostici di laboratorio e strumentali, di cui una variabile percentuale del 30-50% secondo stime internazionali è inappropriata
• 8.500 milioni vanno per le cure odontoiatriche (mai incluse nei livelli essenziali di assistenza) • € 5.255 milioni per l’assistenza ospedaliera, di cui oltre € 3.000 milioni per la long-term-care
• 1.000 milioni per protesi e ausili.
«Lo “spacchettamento” della spesa delle famiglie» continua il presidente del Gimbe «confuta di fatto l’ipotesi che gli esborsi dei cittadini siano destinati esclusivamente a fronteggiare le minori tutele pubbliche: infatti, almeno il 40% non viene speso per beni e servizi indispensabili a migliorare lo stato di salute, bensì soddisfa bisogni indotti dal benessere e dalla medicalizzazione della società e condizionati da consumismo, pseudo-diagnosi e preferenze individuali». La controprova viene fornita dal fatto che nelle diverse Regioni la spesa out-of-pocket è proporzionale al reddito pro-capite e alla qualità dell’offerta pubblica: in altre parole, le famiglie spendono di più nelle Regioni del Nord dove l’offerta dei servizi sanitari pubblici è adeguata, mentre quelle del Sud si attestano tutte sotto la media, nonostante una qualità peggiore dei servizi.
Infine, conclude la nota della Fondazione, la ricerca di Censis e Rbm Salute «prova a sensibilizzare il nuovo Governo “personalizzando” i risultati dell’indagine, da cui emergerebbe un “maggior rancore degli elettori di 5 Stelle e Lega nei confronti della sanità”, considerata il “cantiere con cui gli italiani metteranno alla prova il passaggio dal rancore alla speranza del cambiamento”». Tuttavia, ricorda Cartabellotta, Lega e M5S scrivono nel contratto che «è prioritario preservare l’attuale modello di gestione del servizio sanitario a finanziamento prevalentemente pubblico e tutelare il principio universalistico su cui si fonda la legge n. 833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale». La vera “prova di esame” cui è atteso il Governo, dice dunque il Gimbe, «non è affatto rappresentata dall’espansione del secondo pilastro, quanto invece dal rilancio del finanziamento pubblico, peraltro annunciato anche dal Premier Conte nel discorso per la fiducia al Senato».