Per tracciare la popolazione e contenere ritorni di fiamma della pandemia è necessario ricorrere in modo massiccio ai test sierologici rapidi. E se i medici di famiglia fanno resistenza, come sta accadendo in diverse zone del Paese, allora se ne affidi la distribuzione alle farmacie del territorio. Sia in regime convenzionato, per i test già acquistati dalle Asl e destinati ai docenti scolastici (circa due milioni di unità ordinate dal commissario Arcuri), sia in regime privato per l’autodiagnosi, come già avviene con i glucometri. E’ quanto chiede la Società italiana di medicina ambientale (Sima), in un comunicato diffuso l’altro ieri per fare alcune puntualizzazioni sul tema.
«I test diagnostici rapidi» spuega il presidente della Società scientifica, Alessandro Miani «rappresentano uno strumento epidemiologico fondamentale ed economicamente accessibile, almeno in sottogruppi di popolazione particolarmente numerosi come i lavoratori di singoli comparti (e in particolare del settore scuola) dove i numeri impediscono il ricorso periodico ai tamponi diagnostici».
Detto questo, prosegue Miani, «non c’è alcun motivo per non consentire agli italiani di trovare questi test in farmacia, sia in caso di fornitura da parte dell’Asl sia privatamente, per l’utilizzo a domicilio in autodiagnosi come avviene normalmente per la rilevazione della glicemia». Le farmacie, dal canto loro, «dovrebbero garantire a chi acquista informazioni chiare e complete non solo sui costi ma anche sui diversi gradi di attendibilità delle diverse tipologie di test in commercio, oggi disponibili anche su campioni salivari».
Al riguardo, chiarisce il presidente della Sima, è importante fare chiarezza: «L’accuratezza dei test sierologici di laboratorio così come dei test rapidi varia a seconda delle aziende produttrici. Tuttavia, nemmeno i test antigenici eseguiti con metodica Pcr sugli ormai famosi tamponi faringei sono totalmente precisi: se da un lato identificano i positivi al covid-19 nel 100% dei casi, dall’altro richiedono che siano trascorsi almeno 3 giorni dal potenziale contagio e comunque possono esitare in falsi negativi nel 10% dei casi».
Nei test rapidi invece – pur con alcune differenze in base al brand – il tempo trascorso dall’infezione è ancora più determinante ai fini dell’esito: «La probabilità di falsi negativi è molto bassa dopo dieci giorni» spiega Miani «e, di fatto, la sensibilità del test passa da una media dell’81% tra quarto e decimo giorno al 97% dopo l’undicesima giornata». Altro dettaglio da non trascurare è l’agevole ripetibilità, da cui la ridottissima probabilità «che un test rapido ripetuto nell’arco di una o due settimane non riconosca un positivo al coronavirus, che potrà quindi essere confermato mediante tampone diagnostico».