I farmaci e le materie prime farmaceutiche potrebbero presto finire nel mirino dei dazi Usa. A rilanciare una volta di più la minaccia è stato il presidente Donald Trump, che nei giorni scorsi – durante un incontro alla Casa Bianca con il presidente salvadoregno Nayib Bukele – ha ribadito l’intenzione di «fare tutto il necessario per riportare la produzione negli Stati Uniti». Compresi i dazi, perché – ha spiegato – «non produciamo più i nostri farmaci, le aziende farmaceutiche si trovano in Irlanda, in Cina e in molti altri Paesi. Più alti sono i dazi, più in fretta torneranno».
Le parole di Trump hanno trovato immediata conferma nelle dichiarazioni del segretario al Commercio Howard Lutnick, che tre giorni fa ha annunciato un ampliamento delle tariffe doganali anche a beni finora esentati come smartphone, laptop e prodotti farmaceutici. Il Dipartimento Usa del commercio, riferisce la stampa, starebbe già valutando l’applicazione di barriere tariffarie alle importazioni del comparto salute, facendo leva su una norma del 1962 che autorizza restrizioni quando è in gioco la sicurezza nazionale.
Dal canto suo, l’industria europea guarda con crescente inquietudine al possibile cambio di rotta. In particolare il ceo di Bayer, Bill Anderson, che in un’intervista concessa al quotidiano tedesco Handelsblatt ha ammonito: «Dazi elevati e permanenti metterebbero a rischio la capacità di ricerca di tutto il settore. E se non cambiano le condizioni europee, alcune produzioni potrebbero essere spostate definitivamente negli Stati Uniti».
Anderson punta il dito sulla politica dei prezzi bassi praticata in Europa come una delle cause dell’attuale squilibrio: «Negli Usa i farmaci costano di più. Questo garantisce alle aziende risorse per investire in ricerca e sviluppo (R&S), mentre in Europa si impongono prezzi sempre più bassi». In questo modo – osserva il manager – «è il sistema americano che finanzia l’innovazione globale».
A confermare l’effetto traino della strategia Usa è l’annuncio di Novartis di prossimi investimenti per 23 miliardi di dollari (circa 20 miliardi di euro) in nuovi stabilimenti sul territorio americano, così da produrre internamente i principali farmaci destinati ai pazienti statunitensi.
Ma la rilocalizzazione della produzione, avverte ancora Anderson, non è priva di costi: «Spalmare la fabbricazione dei principi attivi (Api Active Pharmaceutical Ingredients) su più Paesi comporterebbe rincari notevoli». Per questo, il ceo di Bayer auspica una soluzione negoziata: «Confido in un accordo vantaggioso per entrambe le parti».
Nel frattempo, però, cresce la pressione sull’industria europea, che rischia di dover rivedere a breve supply chain e strategie industriali. E anche medici e farmacisti potrebbero trovarsi a breve alle prese con nuove turbolenze su prezzi, disponibilità e continuità terapeutica.