Secondo un ampio studio randomizzato condotto in cinque Paesi, i trattamenti a base di interferone beta 1a più remdesivir nei pazienti ricoverati per covid-19 non sembrano assicurare benefici clinici significativi. All’origine del trial c’era la consapevolezza che patogenesi e gravità dell’infezione da coronavirus fossero dovute alla compromissione funzionale dell’interferone (Ifn), un componente antivirale naturale del sistema immunitario; gli autori dello studio, quindi, hanno voluto studiare l’efficacia dell’interferone beta-1a – un farmaco per la sclerosi multipla – in combinazione con l’antivirale remdesivir nei pazienti in ricovero ospedaliero per covid.
La ricerca ha coinvolto 63 ospedali di Giappone, Messico, Singapore, Corea del Sud e Stati Uniti. Gli arruolati erano tutti adulti di età pari o superiore ai 18 anni, ricoverati per contagio da coronavirus confermato con test positivo. La selezione richiedeva inoltre la presenza di alcuni parametri indicativi di un’infezione del tratto respiratorio inferiore, come la necessità di ossigenoterapia.
I 969 partecipanti hanno ricevuto in modalità randomizzata remdesivir per via endovenosa come dose di carico di 200 mg il primo giorno, seguita da una dose di mantenimento di 100 mg somministrata quotidianamente per un massimo di nove giorni; in più, sono state somministrate fino a quattro dosi di 44 μg di interferone beta-1a o placebo, somministrato per via sottocutanea a giorni alterni. L’esito primario dello studio era il tempo di recupero.
I ricercatori hanno scoperto che i partecipanti di entrambi i gruppi hanno avuto un tempo di recupero di cinque giorni. Anche la probabilità di miglioramento clinico al quindicesimo giorno era simile nei due gruppi. I pazienti che non richiedevano ossigeno ad alto flusso al basale avevano maggiori probabilità di incorrere in un evento avverso correlato nel gruppo interferone beta-1a più remdesivir, rispetto al gruppo remdesivir più placebo (7% contro 3%).
«È possibile che l’interferone beta-1a possa avere aumentato la risposta infiammatoria, portando a malattie respiratorie più gravi in questi pazienti» hanno affermato gli autori. La conclusione cui ha condotto lo studio è che sebbene i loro risultati fossero in contrasto con quelli di altri studi osservazionali e studi randomizzati, era «improbabile» che l’interferone beta 1a sottocutaneo mostrasse efficacia nei pazienti ospedalizzati per covid-19.
Tuttavia, hanno osservato i ricercatori, lo studio non ha fornito informazioni sull’efficacia dell’interferone beta-1a in pazienti con malattia in stadio iniziale o lieve, che non richiedono l’ospedalizzazione, né sull’effetto dell’interferone beta-1a senza l’uso concomitante di steroidi. «L’Ifn viene soppresso all’inizio dell’infezione da Sars-CoV2, il trattamento precoce potrebbe quindi essere ancora utile e va valutato in studi rigorosi», hanno aggiunto.