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Concorsi, il Consiglio di Stato: il divieto decennale della 475/68 vale anche per i farmacisti soci

14 Gennaio 2020

Vige anche per i farmacisti soci di una società titolare di farmacia la norma della legge 475/68 che esclude dalla partecipazione ai concorsi chi ha venduto da meno di dieci anni. E’ quanto sancisce la sentenza – pubblicata il 10 gennaio – con cui il Consiglio di Stato ha respinto l’appello di due farmacisti ai quali la Regione Veneto aveva revocato l’assegnazione della sede, messa in palio con il secondo interpello del concorso straordinario del 2012. Uno dei due titolari, era la motivazione del provvedimento regionale, partecipava alla società che nel novembre del 2003 aveva trasferito a terzi la titolarità della farmacia. Il decreto di decadenza era stato impugnato dai due farmacisti davanti al Tar, che però lo aveva respinto; la sentenza è stata quindi impugnata in appello ma il Consiglio di Stato ha sostanzialmente confermato le tesi dei giudici amministrativi di primo grado.

Secondo la Corte, in particolare, il divieto decennale introdotto dalla 475/68 individua un compromesso «tra l’interesse del titolare dell’esercizio farmaceutico a “monetizzare” la posizione conseguita e quello pubblico a preservare la connotazione del servizio farmaceutico, depurandolo da profili di carattere meramente speculativo e “commerciale”». In altri termini, l’obiettivo è quello di «evitare che il farmacista, il quale abbia ceduto la propria farmacia, si appropri attraverso l’assegnazione concorsuale di un nuovo esercizio farmaceutico, ottenendo un doppio vantaggio economicamente valutabile». E’ evidente quindi «che siffatta ratio ricorre anche laddove la cessione sia stata effettuata da una società di persone, anche in quel caso dovendo ritenersi che il socio abbia acquisito i relativi vantaggi».

Ha quindi ragione il Tar, prosegue il Consiglio di Stato, quando osserva che «nell’ambito della normativa regolante il riordino del settore farmaceutico non è ravvisabile una discrasia tra la titolarità di farmacie esercitate in forma individuale e quella inerente le farmacie esercitate in forma collettiva, la cui direzione compete a uno dei soci con possibilità di avvicendamento degli stessi». Confermano questa lettura, prosegue la sentenza, «sia argomenti attinenti alla disciplina civilistica delle società di persone, sia considerazioni più strettamente inerenti alla disciplina pubblicistica dell’attività farmaceutica».

In particolare, il Consiglio di Stato richiama l’articolo 7, comma 2, secondo periodo della Legge 362/1991, nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dalla 223/2006 (il cosiddetto decreto Bersani): «sono soci della società farmacisti iscritti all’albo della provincia in cui ha sede la società, in possesso del requisito dell’idoneità previsto dall’articolo 12 della legge 475/68 e successive modificazioni». Nel momento in cui la società vendeva la farmacia, ricorda la Corte, la norma in vigore «concorreva a costituire un legame strettissimo tra farmacia gestita dalla società e soci farmacisti, a garanzia della corretta gestione del servizio farmaceutico. In altre parole, l’attività di distribuzione farmaceutica, pur quando fosse organizzata in forma societaria, continuava a conservare una forte impronta “personalistica”, riflesso della peculiare natura dell’attività esercitata, la quale rinveniva nelle qualità e nei titoli professionali dei soci-farmacisti la garanzia principale del suo corretto svolgimento».

Le considerazioni appena esposte sembrano suggerire che per i giudici di Palazzo Spada il divieto decennale abbia valore soltanto per i farmacisti soci di società che hanno venduto prima del 2006. Indicazioni più chiare potranno venire soltanto dagli addetti ai lavori, qui vale soltanto la pena di rilevare che nella sentenza viene anche citato il parere sulla Legge per la concorrenza espresso il 3 gennaio 2018 dalla

Commissione speciale dello stesso Consiglio di Stato, laddove afferma che «alla responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali corrisponde l’attribuzione ex lege (artt. 2257 e 2258 del Codice civile) del potere di amministrazione, che porta a ritenere ciascun socio compartecipe alla titolarità dell’esercizio farmaceutico». Di certo, è una sentenza che farà discutere a lungo.