Il farmacista-grossista che effettua acquisti per la farmacia e per la sua azienda di distribuzione all’ingrosso deve utilizzare due codici differenti a seconda della destinazione delle merci «a garanzia della trasparenza delle vendite, per evitare esportazioni su mercati paralleli, e a garanzia anche della salute pubblica». E’ quanto afferma la recentissima sentenza con cui il Consiglio di Stato ha respinto l’appello di un titolare di farmacia lombardo, “diffidato” nel 2015 dall’Asl di Mantova perché evitasse commistioni tra l’attività di distribuzione di medicinali e quella di vendita al dettaglio. Il farmacista aveva impugnato davanti al Tar della Lombardia la diffida e il parere del ministero della Salute che l’aveva ispirata, ma il suo ricorso era stato in parte rigettato e in parte dichiarato inammissibile. Stesso esito davanti al Consiglio di Stato, che con questa sentenza mette finalmente un punto fermo sull’annosa e sfibrante questione della doppia autorizzazione, legittimata dall’articolo 100 del d.lgs 219/2006.
Nella loro decisione, infatti, i giudici sposano la linea indicata dal ministero della Salute nel parere del 2015, secondo la quale «l’uso di codici differenti per lo svolgimento delle diverse attività di vendita al dettaglio e vendita all’ingrosso risulta preordinato al fine di assicurare la tracciabilità dei farmaci». Ne consegue, come scrive correttamente l’Asl di Mantova nella sua diffida, che «in nessun caso il deposito può approvvigionarsi di medicinali dalla farmacia e l’unico movimento previsto dalla farmacia al grossista è la restituzione, che avviene a fronte di errori di fornitura o rientri dal cliente». Il farmacista aveva obiettato che tale disposizione lede la libertà d’iniziativa economica e la libertà di concorrenza, perché l’acquisto di farmaci per l’attività di distribuzione all’ingrosso mediante il codice univoco della farmacia mira soltanto ad aggirare il comportamento «distorsivo» perseguito dalle industrie farmaceutiche, che «fornirebbero i medicinali ai farmacisti-grossisti senza continuità e a prezzi maggiori di quelli praticati alle farmacie». Per il Consiglio di Stato, tuttavia, tale tesi non regge: «le disfunzioni lamentate dall’appellante» ricordano i giudici «non discendono dal parere ministeriale, ma semmai dai comportamenti anticoncorrenziali di alcuni operatori, dei quali l’appellante avrebbe semmai dovuto fare segnalazione proprio alla luce delle linee direttrici in materia di buona pratica di distribuzione dei medicinali di cui al decreto del ministro della Sanità del 6 luglio 1999».
E’ evidente invece, continuano i giudici, che i requisiti richiesti dal d.lgs 219/2006 ai distributori farmaceutici per ottenere l’autorizzazione a esercitare attività all’ingrosso soddisfano «la necessità di garantire il servizio pubblico, ovvero la permanenza di un assortimento di medicinali sufficiente a rispondere alle esigenze di un territorio geograficamente determinato». A tal fine, «non possono essere sottratti, alla distribuzione e alla vendita, i medicinali per i quali sono stati adottati specifici provvedimenti al fine di prevenire o limitare stati di carenza o indisponibilità, anche temporanee, sul mercato o in assenza di valide alternative terapeutiche». La necessità di garantire la tracciabilità dei farmaci si inserisce in tale contesto, perché mira «proprio a evitare fenomeni distorsivi della concorrenza e la vendita su mercati paralleli in danno dell’Erario e della salute pubblica». L’impiego di codici distinti, in altre parole, serve «a garantire la trasparenza e la tracciabilità delle operazioni», senza per questo condurre a una «limitazione o divieto dell’attività di commercializzazione».
«La sentenza del Consiglio di Stato» commenta Annarosa Racca, presidente di Federfarma Lombardia «rappresenta un chiarimento cruciale e decisivo su una questione che il sindacato titolari, sotto la mia presidenza nazionale, ha sempre messo tra le sue priorità. Il parere del Ministero cui fa riferimento il Consiglio di Stato fu frutto anche di nostre sollecitazioni, e i suoi contenuti hanno ispirato il Protocollo sulle carenze che Aifa, Ministero e sigle della filiera – Federfarma ovviamente compresa – firmarono nel 2016».