Perché le farmacie applichino correttamente le disposizioni previste dal protocollo su prezzo e ristoro delle mascherine siglato il primo maggio con il commissario per l’emergenza covid, Domenico Arcuri, urge che Federfarma chiarisca alcuni passaggi della circolare con cui aveva diffuso i contenuti dell’accordo. E’ la richiesta che l’Unione titolari della Lombardia ha inviato stamattina alla Federazione con una lettera firmata dal segretario regionale, Luigi Zocchi.
I punti sui quali si concentra l’attenzione del sindacato lombardo sono in sostanza due. Innanzitutto c’è la questione dei modelli sui quali andrebbe applicato il prezzo amministrato di 0,61 euro (e per il quale le farmacie verrebbero poi «ristorate»). Nella propria circolare, Federfarma nazionale allarga le disposizioni dell’ordinanza (riguardanti in origine soltanto le en 14683) a «tutte le mascherine chirurgiche che hanno codice en 149:2001+A1:2009» (sigla che peraltro nel Protocollo non compare) ed esclude «i dispositivi di protezione individuale (dpi), quali ffp2 e ffp3».
Al sindacato lombardo, tuttavia, i conti non tornano: è vero, obietta l’Unione regionale, che al punto b delle premesse il Protocollo parifica alle en 14683 tutti i prodotti monouso aventi «analoghe capacità protettive», lecitamente presenti in commercio e destinati alla vendita sul territorio. Appare quindi evidente che tale disposizione si riferisca alle sole maschere dalle «caratteristiche compatibili con il documento uni en 14863 (tipo I, II e IIR): «sono sicuramente tali» ragiona Federfarma Lombardia «i prodotti importati in deroga che hanno ottenuto parere favorevole dall’Istituto superiore di sanità a seguito di autocertificazione», come previsto dall’articolo 15, comma 2, del decreto legge 18/2020. «Non lo sono di sicuro» prosegue la lettera «i prodotti che ricadono sotto l’articolo 16 dello stesso decreto» e «non lo sono nemmeno i dpi identificati dal ministero della Salute sul proprio sito come facciali filtranti rispondenti alla norma en149:2001+A1:2009» ossia il modello ammesso dalla circolare della Federazione.
E’ altresì ambiguo il paragrafo della circolare che passa in rassegna i documenti da presentare per ottenere il rimborso della differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita. Nel caso di mascherine provenienti da Paesi extra-Ue, la Federazione consiglia di conservare l’autocertificazione del produttore (o dell’importatore o ancora di colui che le ha immesse in commercio) e la validazione prodotta dall’Istituto superiore di sanità. Quest’ultimo, però, ha il compito di validare soltanto le mascherine tipo en 14863, perché le en149:2001+A1:2009 sono invece validate dall’Inail (come chiarisce l’articolo 15, commi 2 e 3 del dl 18/2020). In altri termini, prima Federfarma allarga le disposizioni del Protocollo ad altri modelli di maschere, poi omette di elencare i certificati specifici da conservare.
Come si può facilmente comprendere, non è una semplice diatriba formale: senza una chiara delimitazione delle tipologie di mascherina che rientrano sotto le disposizioni del protocollo e della documentazione da allegare, infatti, c’è il serio rischio che le farmacie applichino il prezzo amministrato su prodotti che invece possono essere venduti a prezzo libero e si vedano poi negare il cosiddetto «ristoro». Si genererebbero perdite che, protratte per diversi mesi, causerebbero seri problemi a parecchi titolari.
Infine, a proposito della certificazione Ce che accompagna le mascherine registrate Ue, l’invito che Federfarma Lombardia rivolge alla Federazione è di realizzare una guida che consenta alle farmacie di verificare l’autenticità della certificazione, «visti gli innumerevoli casi di contraffazione che stanno emergendo sul territorio».